I ragazzini inglesi tra i 12 e i 15 anni trascorrono più di 20 ore alla settimana online, secondo i dati dell’Ofcom che fotografano quanto, ormai, per i bambini e gli adolescenti di oggi sia diventato usuale utilizzare internet. E questo uso non è soltanto finalizzato all’intrattenimento, ma anche all’informazione. Secondo quanto emerso, in Italia, dal progetto Diagno//Click patrocinato dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e promosso dall’associazione FamilySmile, quasi 8 adolescenti su 10 cercano sul web informazioni a proposito della propria salute. Senza sottovalutare l’ampio seguito di personaggi più o meno famosi sui social network e l’emergere di figure competenti in ambito scientifico, gli health influencer, che si occupano di divulgazione anche verso i giovani.
La dimestichezza dei nativi digitali con il web e la propensione a ricercare informazioni a proposito della propria salute pone una questione anche dal punto di vista medico. Come curare pazienti così digitali? La digital health e patient engagement sono due risposte possibili, scopriamo in cosa consistono.
Secondo quanto emerso dal progetto Diagno//Click, che ha coinvolto 1713 adolescenti dai 14 ai 19 anni delle scuole superiori in 10 Regioni Italiane, il 77% dei ragazzi coinvolti cerca informazioni su internet a proposito della propria salute. Sia maschi che femmine ricorrono al “dottor Google”, ponendo, però, domande differenti: le adolescenti sono infatti più interessate all’alimentazione, gli adolescenti alla sessualità. Preferenze che cambiano mano a mano che passa il tempo: a 19 anni, infatti, le ragazze cercano informazioni a proposito delle malattie sessualmente trasmissibili, mentre i coetanei maschi puntano tutto su allenamento e alimentazione.
In entrambi i casi, solo un adolescente su quattro dopo aver completato la ricerca ne parla con i propri genitori, nonostante la sensazione non sia quella di aver fatto chiarezza, ma piuttosto una generale confusione e addirittura ansia per quello che è stato scoperto. L’82% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di sentirsi confuso e di non aver capito pienamente quanto letto o ascoltato, ma di essere contemporaneamente soddisfatto per aver trovato risposta al propri dubbi.
L’indagine aveva, inoltre, l’obiettivo di capire quale fosse l’idea di salute che hanno i giovani, piuttosto distante, per ragioni generalmente anagrafiche, da come viene intesa per esempio dal sistema sanitario nazionale. Salute è assimilabile allo stare bene e, come riportato dai promotori del progetto, è legata “ per lo più legato ad una visione soggettiva. Per alcuni è un corpo scolpito, per altri, la morte, per altri ancora la materialità del possesso. La salute è, dunque, la rappresentazione ideale di ciò che i giovani vogliono essere o tendono a divenire. Ed è per questo che i giovani cercano prima di tutto notizie relative al benessere, allo “stare in buona salute” intesa come necessità prevalente di possedere un corpo in forma e di controllare l’alimentazione, anche se la materia della ricerca cambia nel corso degli anni.”
Perché, infine, i nativi digitali usano proprio internet per informarsi a proposito della salute? Nove adolescenti su dieci rispondono che è la disponibilità di informazioni in qualsiasi momento, direttamente dal computer e ancor più spesso dallo smartphone, è la ragione per cui il web prevale anche sugli specialisti. Altri indicano anche la velocità di accesso alle informazioni come determinante, mentre pochissimi (solo il 2%) ritiene il web più affidabile di un familiare o di un medico.
I medici, gli infermieri, gli operatori sanitari già sanno quanto può essere complesso relazionarsi con pazienti che si presentano in ambulatorio dopo aver consultato Google e, addirittura, con un’ipotesi di diagnosi. È altrettanto riconosciuto come, online, si possano trovare informazioni attendibili, redatte e supervisionate da professionisti del settore, come vere e proprie bufale, notizie false che possono essere particolarmente dannose quando riguardano la salute.
Il rapporto tra pazienti e web pone, innanzitutto, delle concrete sfide ai medici che sono costretti ad adattare la comunicazione con i pazienti a questo fenomeno. Quando si parla, poi, di pazienti nativi digitali, questa attenzione è ancor più necessaria. I giovani d’oggi sono i pazienti sia nel presente che nel prossimo futuro e crescono già abituati a farsi aiutare dal web in caso di necessità.
In che modo, dunque, il medico può far valere la propria professionalità e riuscire a curare il giovane paziente molto smart? I concetti chiave sono due: digital health e patient engagement. Nel primo caso, il riferimento è alla necessità degli operatori sanitari di conoscere e utilizzare quegli stessi strumenti digitali e innovativi che per i pazienti nativi digitali sono automatici. È il caso, quindi, delle app di messaggistica, del “metterci la faccia” sui social, ma anche di utilizzare software ad hoc per la gestione dello studio medico aggiornati per comunicare con i pazienti o aggiornare l’agenda degli appuntamenti.
La “patient engagement”, invece, è la tendenza a coinvolgere un paziente interessato a saperne di più della propria salute, incoraggiandolo a fare ricerca e fornendo direttamente delle informazioni integrative rispetto a quello che già dimostra di sapere. È il caso, per esempio, del dare più nozioni ad un paziente che sembra riconoscere il linguaggio tecnico, oppure raccogliere e, se sono validi, approfondire gli spunti che emergono in ambulatorio.
Naturalmente ciò è possibile solo se esiste un rapporto di fiducia e di riconoscimento reciproco. Il medico deve essere consapevole che il paziente ha diritto di informarsi online, mentre al paziente è richiesto di riconoscere l’importanza di rivolgersi ad uno specialista che è il solo a poter valutare la propria condizione personale e, nel caso, effettuare una diagnosi.
Entrambi questi aspetti di innovazione, digital health e patient engagement, diventeranno ancor più importanti con i pazienti nativi digitali per cui, come confermano i dati, la ricerca sul web anche a proposito della salute è già realtà. I medici sono pronti?