L’Italia resta uno dei paesi più longevi al mondo: l’aspettativa di vita, infatti, supera gli 80 anni sia per gli uomini, 81, che per le donne, 87. Non soltanto, gli italiani sembrano invecchiare anche in buona salute dal momento che ben sette su dieci dichiarano di stare, tutto sommato, bene. I dati, raccolti dall’Istat nel Rapporto 2018, non devono però trarre in inganno: esistono ancora profonde diseguaglianze di salute e differenze geografiche sia dal punto di vista dei servizi offerti sia della percezione stessa dell’intero comparto della sanità. Andiamo più a fondo, osservando quanto rilevato dall’istituto statistico, per immaginare come ciò abbia un impatto anche sul futuro.
Il primo elemento che emerge dal rapporto ISTAT è la correlazione tra l’investimento pro capite nell’ambito sanitario e la salute dei cittadini: laddove la spesa pubblica è maggiore, le persone stanno meglio. Uniche eccezioni sono il Molise, dove gli investimenti sono molto elevati a fronte di un tasso di diseguaglianza ancora molto alto, e il Veneto, regione nella quale si realizza esattamente il contrario.
Inoltre, se è vero che l’aspettativa di vita alla nascita è piuttosto elevata in tutto il paese, già emergono delle differenze se si osserva l’aspettativa di vita in buona salute. Il record per la città dove si vive sani più a lungo spetta a Bolzano dove si raggiungono quasi i 70 per uomini e donne, mentre il fanalino di coda sono due regioni del Sud. Gli uomini in Calabria in media raggiungono i 51,1 anni in salute, mentre le donne in Basilicata i 50,6.
Questi dati, combinati con la percentuale di famiglie che ha bisogno di aiuti nell’ambito delle prestazioni sanitarie (il 18,2%), consente di intuire perché è proprio l’investimento in sanità a poter fare la differenza. Una buona notizia viene dall’incremento delle professioni qualificate nel settore, soprattutto donne, altamente formate e pronte ad entrare nel mondo del lavoro.
La relazione dell’ISTAT fotografa anche la distribuzione della spesa pubblica sanitaria da cui emergono alcune cruciali differenze. In generale, i principali ambiti di investimento sono:
Prevenzione, altre funzioni di assistenza e le spese di gestione del sistema completano la torta degli investimenti che fanno sì che, secondo i dati aggiornati al 2015, in Italia siano attive ben 1.344 strutture ospedaliere facenti parte del Servizio sanitario nazionale, capaci di garantire 217.000 posti letto, la maggior parte di essi sono dedicati alla cura di patologie acute.
Se questi sono i dati a disposizione a livello nazionale, è l’ISTAT stesso a spacchettarli per capire se esistono differenze regionali, sottolineando come sia comune trovare servizi diversi su territori diversi perché essi dovrebbero rispondere ai concreti bisogni dei cittadini. Per esempio, nel Centro-Nord prevalgono i servizi destinati agli anziani e alle persone con disabilità, mentre al Sud l’offerta sanitaria è mirata all’assistenza clinica e diagnostica.
Alcune Regioni, inoltre, risultano molto più attrattive delle altre: è il caso della Lombardia e dell’Emilia Romagna che effettuano 3,0 e 2,4 ricoveri in entrata per ogni dimissione. Elemento che rende molto bassa la percentuale di mobilità ospedaliera in uscita che, al contrario, è particolarmente alta in Molise, Basilicata e Calabria laddove i cittadini sono, inoltre, molto insoddisfatti dell’assistenza medica ospedaliera ricevuta in loco. Basti pensare che solo 1 cittadino lucano su 10 si reputa soddisfatto.
Lo conferma anche uno studio del 2017 dell’Istituto Demoskopika che, oltre ad etichettare come regioni “sane” solo Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige, evidenzia un fenomeno in netta crescita: la rinuncia alle cure. Nella maggior parte dei casi, le motivazioni sono i costi elevati delle cure (che impatta, in media, il 25% sul bilancio familiare) e la lunghezza dei tempi di attesa che, come conferma il CENSIS, è doppia al Sud rispetto al Nord, 64 giorni a fronte di 34.
I dati del Rapporto ISTAT e le numerose ricerche realizzate in quest’ambito non lasciano, dunque, spazio a dubbi: esistono delle diseguaglianze di salute, a cui i cittadini sono molto sensibili. La salute è, però, un bene troppo importante perché non vi sia una risposta nella direzione di una maggiore tutela.
Cresce, seppur a rilento rispetto ad altri paesi europei, la spesa in sanità digitale e proprio questo ambito può offrire alcune risposte concrete alle diseguaglianze socio-economiche e territoriali. Si parla di “Smart Health”, ovvero di sanità intelligente che, attraverso strumenti ad alto tasso tecnologico, consentono di monitorare la salute dei pazienti, agevolando la prevenzione e, contemporaneamente, risparmiare tempo. Più dati raccolti a distanza e un miglior sistema di comunicazione tra paziente e medico fa sì che sia necessario un numero minore, per esempio, di visite in ambulatorio dove è necessario recarsi solo in determinate situazioni.
Questo tipo di innovazioni non sono una novità assoluta, ma proprio in questi ultimi anni stanno finalmente trovando terreno fertile anche in Italia. Sono molte le Regioni, tra l’altro, che si sono attivate, a partire dal 2017, per sviluppare progetti di Fascicolo Sanitario Elettronico e, osservando i dati di AgID, le Regioni dove il FSE è stato utilizzato praticamente da tutti i medici sono Lombardia, Emilia Romagna, Puglia e Sardegna. Un piccolo segnale positivo per il futuro che indica la strada da percorrere.
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